giovedì 3 marzo 2011

Vera rivoluzione: i tre patti

Anni ’60, ventesimo secolo. Anni di profondi cambiamenti per l’Italia e per il mondo. Come scrive l’economista Ferdinando Targetti, nella sua analisi dei processi di globalizzazione: nazioni come la nostra si trasformavano in Paesi industriali, si intensificavano le grandi migrazioni interne, mentre i mezzi di comunicazione e trasporto diventavano sempre più rapidi e accessibili. Il “boom” economico aveva riportando i livelli di crescita degli scambi internazionali a quelli antecedenti allo scoppio della prima guerra mondiale. Quegli anni aprivano, come oggi, a nuove domande, scenari inediti che i movimenti sociali espressero, con rabbia e al tempo stesso con una profonda angoscia, in slogan e parole d’ordine. A partire dalle grande fabbriche del Nord Italia, e all’interno dei primi poli universitari in fermento, anch’essi collocati principalmente al Nord, grandi masse riscoprivano se stesse in una nuova realtà collettiva.

Dai luoghi, le università e le fabbriche, emergevano gli attori principali di quella rivoluzione. Da una parte gli studenti: attraverso lo studio delle moderne scienze umane, ponevano in discussione ogni assetto sociale, politico, economico, filosofico fino a quel momento considerato radicato. Dall’altra gli operai, per lo più figli di braccianti, emigrati dal Sud Italia: rivendicavano, oltre ai salari, nuovi diritti attraverso esigenze come la formazione e la libertà intellettuale. Entrambi videro un’opportunità di riscatto nella loro unione, pur senza negare aspetti conflittuali. Purtroppo il fallimento di quella rivolta è da ricercarsi nella sua incapacità di tradurre le aspirazioni in programmi concreti e in strutture organizzative in grado di realizzarli. Si è realizzata una rivolta etico-politica contro la società, piuttosto che un insieme di movimenti politici finalizzati alla realizzazione di un programma ben definito. Complice una classe politica distratta da logiche clientelari che non è stata in grado di raccogliere la sfida e produrre un nuovo patto sociale, in grado di collegare i luoghi della cultura con i luoghi della produzione.

Oggi, sulla base della nuova crisi globale, dopo la grande rivoluzione del lavoro Taylorista, compaiono nelle vicende di cronaca, i piccoli sintomi di una malattia più diffusa. Riforma della giustizia, federalismo, le vicende di Pomigliano e Mirafiori, la crisi sociale del Nord Africa, la diffusione di nuove forme di estremismo, flussi sociali in continuo movimento globale, lo sviluppo di facebook e dei social network; tutte vicende apparentemente slegate ma che trascinano tanti risvolti concatenati l’uno con l’altro. La febbre globale sale, mentre l’apertura commerciale punta ora sul Medio Oriente e sulle nuove sfide dell’Africa, e la classe dirigente legata a questo Governo resta sorda, sempre più appesantita dal torbido lasciato da un decennio in cui la Politica, con la “P” maiuscola, è stata accantonata per lasciare spazio al leaderismo dei singoli. Piccole vicende che oggi chiamano in causa tre nuovi patti sociali, in grado di favorire la nascita di nuovi sistemi di welfare.

Un patto generale (tra generi), un patto generazionale (tra generazioni) e un patto interculturale (tra etnie).